Due artisti americani conosciuti a livello internazionale sono stati invitati da Studio la Città a Palazzo Flangini (dal 13 maggio al 30 luglio 2017, 11.00 – 18.00 – chiuso il lunedì) per allestire una mostra site-specificdedicata al tema della fine dell’utopia.
Addentrandoci nell’era dell’Antropocene, il nostro tributo diventa sempre più evidente. Decenni di sfruttamento ambientale ci hanno lasciato pericolosamente in bilico su tutti i fronti: politico, sociale, economico, naturale, tecnologico e ecologico.
Come molti osservatori dell’Antropocene hanno notato, l’umanità stessa è diventata sempre più carnefice piuttosto che vittima del caos planetario.
In questo contesto, il lavoro di Jacob Hashimoto pone un tema d i recente rilevanza: se l’arte è discutibilmente un’alterazione dello schema fatto dall’uomo sulla natura – l’ordine dell’uomo sul caos primordiale – allora come cambia il significato dell’arte nel momento in cui ci rendiamo conto che le infrastrutture, i sistemi e gli algoritmi, tutti progettati dall’uomo per avvicinarsi all’utopia, stanno perdendo il loro valore? Entrando nel piano terra settecentesco del Palazzo, i visitatori incontrano un’immensa e fluttuante scultura site specific costituita da 8.500 aquiloni neri di carta e bambù, sospesi dal soffitto e assemblati in una spe ttacolare nuvola ondeggiante che sovrasta le loro teste. Quest’opera secondo l’artista vuole essere una scultura densa, non di luce. Superando la sua abituale poetica di elementi paesaggistici fortemente iconici, geometrie e colori vivaci, Hashimoto invece crea qui un’opera monocromatica utilizzando aquiloni ellittici neri con un diametro di 9 pollici. Dopo un attento esame, la superficie rivela tracce appena percettibili di stelle, serigrafate con inchiostro, che diventano indistinte e sfocate mano mano ch e il visitatore entra nella parte dell’installazione. Emergendo lentamente alla luce, queste stelle – che rimandano sia agli elementi presenti in alcune bandiere che al firmamento – evocano vari simboli della storia dell’arte legati alla superficiale propa ganda politica come ai regni celestiali che da queste stelle trascendono.
Il lavoro di Emil Lukas occupa il primo piano dello spazio. Lukas ha creato tre gruppi di opere, separati ma interconnessi: “Lens, Puddles, Threads” [Lenti, Pozzanghere e Fili]. Alla fine del salone, 650 tubi in alluminio, sono assemblati in una sorta di lente gigantesca. Attraverso i tubi saldati uno di fianco all’altro, la scultura concava è quasi iridescente, permette una visione che si sposta a seconda dei movimenti dello spettatore. Dall’angolo destro, la lente focalizza e isola il visitatore, concentrando l’esperienza dell’opera su un’unica fondamentale prospettiva – la posizione dell’osservazione nel Panopticon.
Mentre “Lens” si rivolge alla seduzione data dall’osservazione, i lavori dalle serie “Puddles” sono un vasto microcosmo che unisce contemporaneamente una progressione impercettibile, quasi geologica del tempo. Per molti versi, questi lavori sono classificati più come sculture che come dipinti, e si caratterizzano per superfici tirate in concavità a forma di imbuto, grazie ad una trama di fili.
Lukas quindi permette alla pittura di raccogliersi in queste concavità formando così delle stratificazioni. Quando il colore asciuga, i pigmenti colano attraverso la tela, macchiando e rivelando la storia delle varie superfici stratificate. I “Threads Paintings” sono delicate sovrapposizioni di fili ancorati su un telaio di legno che incorniciano il retro irregolare di gesso bianco.
Questi fili si incrociano uno con l’altro in modo sempre più fitto intorno al perimetro irregolare del telaio, lasciando il centro dell’opera relativamente vuoto. L’effetto di questa densità disegnata, da una certa distanza, crea una potente illusione ottica di volume. Come il visitatore si avvicina al lavoro, l’intreccio di fili diventa apparente e si svela una delicata atmosfera che scorre su un paesaggio alieno.
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